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01/09/2014
Il cinema si fa serial?
di Biancalisa Nannini

L'interesse per la serialità televisiva ormai ha invaso anche i festival. Ne è la prova l'incontro tenutosi ieri pomeriggio nella Villa degli Autori.
Il dibattito, moderato da Giacomo Durzi, che a detta di tutti i relatori si è svolto con troppi anni di ritardo, si è concentrato su tre tematiche principali: opzioni narrative, modelli produttivi e la possibilità di fruizione da parte di un pubblico sempre più competente e appassionato.

Sul primo punto, la conclusione è parsa unanime: è importante smettere di pensare che serialità e cinema siano in conflitto. La struttura narrativa seriale utilizzata dal medium televisivo è capace di generare una storia che teoricamente potrebbe continuare all'infinito. Le serie hanno "vampirizzato" i vecchi modelli di narrazione, ma naturalmente si sono anche emancipate da questi per assumerne di propri. E lo stesso discorso si può fare oggi per il cinema che guarda molto a ciò che accade in televisione.

L'attenzione per il racconto in un certo senso ha portato in primo piano il lato letterario rispetto a quello estetico, con la conseguente nascita e crescita esponenziale di una figura professionale che negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei è diventata decisiva, quella dello showrunner, il cui compito è di dare continuità e coerenza a una storia.

Sul fronte produttivo, gli ospiti hanno messo a confronto i nostri canali generalisti con alcuni tra i modelli stranieri più virtuosi. La richiesta di innovazione e più in generale di attenzione al fenomeno è stata unanime. In particolare è stato analizzato il ruolo dittatoriale dell'editore nei confronti di ideatori, sceneggiatori e registi, il cui ruolo è stato definito "accessorio" da Renato De Maria.

D'accordo con il regista de La vita oscena, lo sceneggiatore Stefano Sardo, che tra qualche mese vedrà trasmessa su Sky la nuova serie ideata insieme a Alessandro Fabbri e Ludovica Rampoldi, 1992. Secondo Sardo in Italia non si è mai sperimentato il modello televisivo seriale così come viene concepito negli Stati Uniti, quello che vede un responsabile in grado di dare una visione unitaria al progetto, eliminando quella suddetta sensazione di "accessorietà" e, comunque, quella dispersione di idee che impedisce la fidelizzazione con il pubblico.

Lo sceneggiatore co-creatore del political drama BorgenJeppe Gjervig Gram, dal canto suo, ha fatto l'esempio della televisione di Stato danese DR, che proprio alla figura dello showrunner dà molta importanza nella creazione e produzione di una serie tv. Una scelta che ha ripagato la rete in termini di ascolti, con uno share superiore al cinquanta per cento. Al contrario, l'altra rete danese, TV2, più vicina alle modalità produttive italiane, sta perdendo telespettatori.

Sul discorso della fruizione si è fatto cenno, tra i tanti discorsi, a una visione quasi cinematografica, ossia al fatto che lo spettatore preferisce vedere più episodi insieme piuttosto che una puntata alla settimana. Questo discorso aveva sullo sfondo il tema della rete, del on demand, dei decoder che sono dei veri e propri hard disk capaci di registrare e conservare ore e ore di programmazione, e probabilmente anche dei metodi non legali. Tutte pratiche che nel bene e nel male hanno contribuito a rendere quello delle serie tv, un fenomeno planetario.

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